Habemus Papam, parliamo di qualcuno dagli Stati Uniti ma non del fu cardinale Provost: Trump finalmente riesce a sedersi al tavolo negoziale con la Cina. La settimana si apre col botto (di teatro diplomatico, s’intende): il grande gioco Usa-Cina entra nella fase “abbassiamo i toni e sembriamo ragionevoli”. Dopo settimane passate a tirare dazi a caso con percentuali da roulette russa, Trump annuncia che sì, ora si può parlare, e per farlo serve un gesto concreto: ridurre le tariffe.
E così, gli Stati Uniti portano i dazi sulla Cina dal folle 145% a un “ragionevole” 30%. La Cina risponde, educata come sempre, scendendo dal 125% al 10%. Il tutto con la solita strategia alla Trump: prima ti spavento coi numeri da infarto, poi torno su cifre decenti e me ne prendo pure il merito. Genio del marketing.
I mercati? In delirio: i future partono in rialzo e l’oro, come ogni volta che torna un po’ di serenità globale, finisce giù.
Weekend intenso per The Donald, che ha deciso di rilanciare la sua candidatura a premio Nobel per la Pace. Dopo un pressing da centravanti d’area, riesce a far sedere India e Pakistan al tavolo per una tregua annunciata a sorpresa. E non appagato, spinge pure Zelensky a incontrare Putin. Sì, proprio lui: Putin. L’incontro sarà giovedì, in Turchia, terra neutrale e ottima per le foto da summit. L’obiettivo? Capire se lo zar ha davvero voglia di negoziare o se è solo un bluff. E in base a quello, decidere come si muovono Stati Uniti ed Europa. Nel dubbio, Trump intanto si prende la scena.
Nel frattempo, Trump si prepara al viaggio in Arabia Saudita. Ma non va da solo: si porta dietro il meglio del business americano, con l’idea di chiudere un pacchetto di accordi che farebbe impallidire un G7. L’idea è un classico win-win: l’Arabia aumenta l’offerta di petrolio (che guarda caso serve in questo momento di domanda crescente), e in cambio ottiene il via libera al nucleare civile, protezione militare USA e – dulcis in fundo – torna a comprare Treasury.
Si parla di 600 miliardi di dollari di investimenti tra economia reale e debito pubblico. E per facilitare il tutto, gli USA iniziano a smussare le regole per i fondi arabi. Altro che diplomazia: qui si gioca a colpi di business plan.
Nota: rispetto al primo mandato, Trump evita accuratamente il tema Israele. Anzi, sembra che stia anche cercando di convincere Netanyahu a darsi una calmata. Sorprendente? Solo per chi non ha capito che l’unica guerra che Trump vuole vincere è quella delle immagini da prima pagina.
Facciamola semplice: siamo tornati grossomodo ai livelli di dazio di prima della tempesta, ma nel frattempo è passato un uragano comunicativo che ha trasformato il tutto in “vittoria strategica”. Un po’ come aumentare un prezzo a 10, portarlo a 30, poi scendere a 12 e dire al cliente che è in offerta speciale. Il tutto condito con un movimento di mercato tale da rendere ricchi molti ma poveri molti di più. Il catalyst di mercato quindi sono quasi tutti dentro (manca un annuncio importante sul tema guerra Russia Ucraina), poi da li dovrà essere la macroeconomia e gli utili aziendali a sostenere le borse altrimenti non c’è show che tenga.
Non solo tweet e incontri internazionali: questa è una settimana seria anche per gli economisti da scrivania.
Wall Street ha aperto la settimana con ottimismo. S&P500 e Nasdaq si avvicinano alle medie mobili a 200 giorni, una soglia tecnica che potrebbe sbloccare nuovi flussi.
Finora il rimbalzo post-Liberation Day è stato guidato dai retail trader (quelli col conto Robinhood e l’abbonamento a Reddit). I fondi istituzionali, invece, stanno ancora scaldando i motori. Ma se i dati macro confermano il trend e Trump continua a regalare colpi di scena diplomatici, potremmo assistere al tanto atteso “panic buying” dei fondi che inseguono il mercato. E allora sì che si corre a rincorrere il mercato per colmare il sempre più ampio gap dei fondi con il benchmark.
Intanto, in Europa, il DAX continua la sua cavalcata. Nessuna novità rispetto a quanto diciamo da settimane: è il mercato più interessante del continente e beneficerà di importanti stimoli fiscali una volta che la politica tedesca si sarà tolta i panni della politica italiana.
Il FTSE MIB regge grazie al comparto bancario, che si prepara al maxi-stacco cedole. Le banche italiane si trasformano così da oggetto di timore sistemico a macchina di distribuzione dividendi. E nel breve, basta questo per tenere il listino in quota.
Trump si muove come sempre: alza la voce, poi fa un passo indietro e si prende l’applauso. Ma dietro la sceneggiatura, qualcosa si muove davvero. I negoziati prendono forma, l’Arabia Saudita torna in asse, e anche i mercati iniziano a crederci.
La settimana promette bene, ma sarà cruciale capire se i fondi torneranno davvero a comprare e se Powell userà parole da falco o da colomba.
Nel frattempo, prepariamoci: quando Trump lavora troppo nel weekend, il lunedì i mercati si svegliano allegri… e un po’ sospettosi.